Manuel Colombo - Fine Art Photography
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Ecco perché alcuni successi sono da evitare.

9/25/2017

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Quanto segue non è originale, nel senso che lo scrissi già qualche anno fa, credo nel 2012, come testo di presentazione quando mi fu offerto di tenere una rubrica di lettura portfolio.
La presentazione, in realtà, fu una scusa per introdurre un discorso più ampio della lettura portfolio in senso stretto e cioè le sue implicazioni. Ed è principalmente rivolto a chi ha la responsabilità di leggere un portfolio.
Lo ripropongo qui. Perché è sempre e comunque attuale.
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La finalità della lettura portfolio dovrebbe essere chiara a chi si mette in gioco.
Quello che risulta meno chiaro è il "metodo" di lettura, principalmente perché non ne esiste uno universale e certificato.
Si cerca di essere il più obiettivi e rispettosi possibile, cercando di applicare tecniche di lettura oggettive e legate agli aspetti denotativi della fotografia e del porftolio nel suo insieme.
 
E' innegabile che anche l'aspetto connotativo, cioè quello più legato alla soggettività, abbia il suo ruolo in una lettura fotografica.
Ho sempre sostenuto, ma non solo il solo, che l'aspetto artistico della fotografia sia legato più all'emozione che alla ragione, più alla "pancia" (o al "cuore" per i più romantici) che alla "testa".
Proprio per questo aspetto cercherò, per quanto mi è possibile, di tenere i due livelli di lettura il più scollegati possibile, anche se non sempre sarà possibile.
 
Quello che non deve essere sottovalutato mai, piuttosto, è l'aspetto psicologico di una lettura portfolio, legato all'atteggiamento di chi richiede una lettura.
Poco sopra ho usato, non a caso, l'espressione "mettersi in gioco", perché sottoporre il proprio porftolio ad una lettura è mettere in gioco il proprio lavoro e, di conseguenza, è un po' come mettere in gioco se stessi.
 
A tal proposito provo a riassumere un episodio tratto da un romanzo di uno dei più grandi scrittori contemporanei.
Il romanzo è Infinite Jest e l'autore è David Foster Wallace.
Wallace inserisce nel suo romanzo molti episodi legati al tennis, sport di cui è appassionato, che diventano metafore molto sottili della vita stessa.
In particolar modo narra la breve storia di Eric Clipperton, un giovane tennista il cui strano atteggiamento riassume molto di noi. E racconta molto di chi, in qualsiasi forma o modo, provi a mettersi in gioco.
Clipperton, giovane e promettente atleta, partecipava ai tornei tennistici portando con sé una pistola. E non solo la portava con sé, ma giocava con la pistola in mano puntandosela alla tempia.
Questo perché minacciava di spararsi in caso di sconfitta.
Tutti i tennisti con cui giocava, terrorizzati dall'idea di batterlo e dalla responsabilità che ne sarebbe conseguita, lo lasciavano vincere.
Anche quando incontrava tennisti decisamente più forti di lui, questi lo lasciavano vincere. Inutile dire che vinse tutti i tornei cui partecipò.
Chi teneva le statistiche ai fini dei punteggi e delle classifiche nazionali sapeva di questa "minaccia" e non omologò mai le sue vittorie, lasciandolo fuori dalle classifiche ufficiali.
Ma a Clipperton questa cosa non importava, a lui bastava non essere mai sconfitto.
E non venne mai sconfitto perché nessuno ebbe mai il coraggio di sconfiggerlo, per quanto facile fosse.
Venne però un giorno in cui la federazione tennistica fu costretta a fare dei cambiamenti interni, ridistribuendo i compiti e assumendo nuovo personale.
Fu così che cambiarono l'addetto alle statistiche ai fini delle classifiche e il nuovo assunto non sapeva che le gare di Clipperton non andassero omologate. Nella confusione nessuno gliel'aveva detto.
In poche settimane Clipperton divenne il numero uno della classifica nazionale.
Tutto perfetto? No, per niente.
Terrorizzato da questa cosa, sapendo di essere diventato il numero uno senza merito e non essendo preparato a sopportare il "peso" di essere il numero uno, Clipperton si suicidò veramente.
Non durante una partita, non durante un torneo, ma nell'ufficio del direttore della scuola tennistica che frequentava, "colpevole" di non averlo protetto e preparato ad essere il numero uno.
Ottenere un successo immotivato e poi sopportarlo è molto più difficile che cercare di ottenerlo e non riuscirci.
 
Credo sia superfluo dover spiegare questa metafora ai fotografi che chiedono la lettura di un loro portfolio.
Chiedo loro una cosa, però.
Di posare quella pistola virtuale e metaforica che tutti, prima o poi, minacciamo di usare in caso di sconfitta.
Quando si legge un portfolio non si dovrebbe temere la reazione negativa del fotografo, ma piuttosto esprimere, con estremo rispetto per il lavoro proposto, un parere che non ha carattere di universalità, ma sicuramente di guida.

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La ballata delle dipendenze sessuali

9/12/2017

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Oggi, 12 Settembre, nel 1953 a Washington nasceva Nan Goldin.
Studia a Boston alla
School of the Museum of Fine Arts, per poi trasferirsi a New York.
Durante la sua infanzia, la sorella si toglie la vita e Nan, fin dall'inizio, utilizza la fotografia come una sorta di diario personale.
Questo stile, l'affiancamento della vita vera all'arte o alla fotografia, la contraddistinguerà lungo tutto il suo cammino artistico e lavorativo.
La sua poetica la porterà a ritrarre amici, conoscenti e sconosciuti nei momenti più deboli come la malattia, la vecchiaia, la sofferenza in genere.
Fino a fotografare se stessa, nel 1984, nell'attualissimo "Autoritratto un mese dopo essere stata picchiata".
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Questo non è un post su Nan Goldin.
E' un post che dovrebbe spingervi a cercare informazioni su di lei e a cercare le sue immagini.

Il suo lavoro "The Ballad of Sexual Dependency", prima concepito come slide show nel 1985 poi come libro nel 1986, è un'autobiografia visiva a cavallo degli anni '70 e '80 dove raffigura la sottocultura gay di New York, il mondo dell'eroina la vita familiare e amorosa della stessa Goldin.

The Ballad of Sexual Dependency sarà in mostra dal 19 Settembre al 29 Novembre 2017 alla Triennale di Milano
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Per fare una fotografia basta premere un bottone?

9/4/2017

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Il 4 settembre del 1888 l'americano George Eastman, allora 34enne, deposita il brevetto numero 388,850
Nasce così la prima macchina fotografica a rullino.
E nasce la Kodak così come l'abbiamo conosciuta per anni.

Lo slogan che Eastman si inventa per il nuovo prodotto è "You press the button, we do the rest".
"Tu schiacci il bottone, noi facciamo il resto".

Prima dell'introduzione del suo prodotto fare fotografie era un processo molto complicato e laborioso.
Eastman rese, a fine '800, la fotografia più accessibile. Creando letteralmente un nuovo bisogno più di soddifarne uno già esistente.
E fu la sua fortuna.

Eastman produsse la sua prima fotocamera due anni prima, nel 1886. La cosiddetta "Detective". La produsse in 50 esemplari e non ebbe alcun successo.
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Nel 1888 produsse un altro modello e scrisse personalmente il manuale utente. Convinto dell'incapacità delle persone di capire la potenzialità e la semplicità d'uso di questo modello, inventò anche il famoso slogan "You press the button, we do the rest."
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Il target di Eastman fu chiaramente quello dei fotoamatori. Un settore di mercato praticamente inesistente che lui creò da zero.
Convinto che la fotografia fosse costituita dai due processi "scattare la fotografia" e "sviluppare la pellicola" riassunse l'assoluta semplicità di fare una fotografia in quello slogan.
"Scattare la fotografia" si riduce a premere un pulsante. Lo sviluppo della pellicola non è più una difficoltà per il semplice fatto che il foto amatore non deve svilupparla o avere le conoscenze per farlo. "We do the rest".
Semplice, immediato e di successo.
Il fotografo doveva semplicemente spedire la propria fotocamera a New York, nei laboratori della Kodak.
Qui si procedeva a separare il rullino dalla fotocamera e a svilupparlo (12 pose).

George Eastman era convinto che esistessero due tipologie di fotoamatori: quelli "evoluti", disposti a spendere tempo e denaro per conoscere l'arte e la tecnica fotografica e quelli "occasionali", quelli per cui la fotografia fosse un semplice strumento per fotografare i momenti importanti o interessanti della propria vita, come le vacanze, i compleanni o altre eventi, ma per nulla interessati all'aspetti tecnico.
Il target di Eastman erano entrambe le tipologie, ma presto si rese conto che il secondo tipo di fotoamatori era potenzialmente espandibile a tutto il mondo. Chiunque messo nelle condizioni di dover semplicemente premere un pulsante era potenzialmente un fotografo e quindi un potenziale cliente.

"You press the button, we do the rest".
"Tu schiacci il bottone, noi facciamo il resto".

Molti "fotografi", ancora oggi a distanza di oltre 120 anni, si illudono che non sia vero.

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