Dissolvenze: Eleonora (14 Novembre 1993 - 23 Settembre 2012)
La prima fu mia sorella minore, molti anni fa.
Era la più piccola, quando io ero la più grande. Era la più coccolata, quando io ero da sola a giocare sul tappeto. Era la più seguita, quando io ero ormai in grado di fare tutto senza l’aiuto dei genitori.
Non avevo capito subito quale tipo di sentimento fosse il mio, ma avevo capito una cosa.
Andava punita.
E la punizione fu gettare dalla finestra quella sua maledetta papera di peluche da cui non si staccava mai.
Se lo meritava. Non fu invidia la mia. Fu senso di giustizia.
Poi vennero le scuole medie.
E fu il momento della prima della classe.
Mi impegnavo. Tanto. Studiavo molte più ore degli altri, ma ogni volta, ad ogni verifica, i suoi voti erano più alti dei miei.
Andava punita.
E la punizione fu buttare nel w.c. della scuola quel suo maledetto zainetto sempre ordinato in cui teneva libri e appunti.
Se lo meritava. Non fu invidia la mia. Fu senso di giustizia.
Poi vennero i ragazzi.
E fu il momento della mia migliore amica.
Ero carina. Ma fu lei la prima fa noi due ad avere il ragazzo. Più mi impegnavo ad apparire carina e più i ragazzi si interessavano a lei.
Andava punita.
E la punizione fu baciare il suo ragazzo davanti ai cancelli della scuola, sicura di essere vista da tutti e, soprattutto, da lei.
Se lo meritava. Non fu invidia la mia. Fu senso di giustizia.
Poi venne il liceo. E la maturità.
E fu il momento del primo della classe.
Ancora una volta, a scuola, qualcuno aveva voti migliori dei miei. E Dio sa quanto mi impegnassi. Lo sa anche mia madre. Stavo chiusa in camera, sui libri, per ore ed ore. Ma non bastava mai. I suoi voti erano sempre i migliori. I professori sceglievano di lodare sempre lui. E fu quasi normale, per lui, avere una valutazione più alta della mia alla maturità.
Andava punito.
E la punizione fu raccontare al professore che quel giorno, alla sua macchina, fu proprio lui, il primo della classe, ad infilare uno stuzzicadenti bagnato nella colla nelle serrature.
Se lo meritava. Non fu invidia la mia. Fu senso di giustizia.
Poi venne l’università. Facoltà di lettere moderne.
Passai i primi esami molto più facilmente di quanto mi fossi immaginata. Mi ritrovai a studiare molto di meno ottenendo sempre le valutazioni più alte.
Iniziai a scrivere per il giornale dell’università. Scrivere mi veniva naturale.
Il professore che si occupava della direzione del giornale passò un mio racconto ad una rivista letteraria. Fu pubblicato subito. E così fu per il successivo racconto. E per quello dopo ancora.
Dopo un anno mi fu affidata la direzione del giornale e fui la prima della facoltà cui una piccola casa editrice decise di pubblicare un breve romanzo.
Finalmente ero la prima. Finalmente guardavo gli altri dall’alto. E li trattavo come era giusto che venissero trattati.
E quel giorno, 23 Settembre, fui punita.
E la punizione fu una corda attorno al collo. Da dietro. Un domenica pomeriggio, mentre scrivevo il mio secondo romanzo.
Non seppi nemmeno chi fu a stringerla. Forse uno di loro. Forse tutti loro.
Ma la strinse abbastanza da farmi perdere il fiato. Poi la vista. Ed infine il respiro.
Non me lo meritavo. Non fu senso di giustizia, la loro. Fu invidia.
© Berenice Mason, 2012
Non usare senza il permesso dell’autrice
Era la più piccola, quando io ero la più grande. Era la più coccolata, quando io ero da sola a giocare sul tappeto. Era la più seguita, quando io ero ormai in grado di fare tutto senza l’aiuto dei genitori.
Non avevo capito subito quale tipo di sentimento fosse il mio, ma avevo capito una cosa.
Andava punita.
E la punizione fu gettare dalla finestra quella sua maledetta papera di peluche da cui non si staccava mai.
Se lo meritava. Non fu invidia la mia. Fu senso di giustizia.
Poi vennero le scuole medie.
E fu il momento della prima della classe.
Mi impegnavo. Tanto. Studiavo molte più ore degli altri, ma ogni volta, ad ogni verifica, i suoi voti erano più alti dei miei.
Andava punita.
E la punizione fu buttare nel w.c. della scuola quel suo maledetto zainetto sempre ordinato in cui teneva libri e appunti.
Se lo meritava. Non fu invidia la mia. Fu senso di giustizia.
Poi vennero i ragazzi.
E fu il momento della mia migliore amica.
Ero carina. Ma fu lei la prima fa noi due ad avere il ragazzo. Più mi impegnavo ad apparire carina e più i ragazzi si interessavano a lei.
Andava punita.
E la punizione fu baciare il suo ragazzo davanti ai cancelli della scuola, sicura di essere vista da tutti e, soprattutto, da lei.
Se lo meritava. Non fu invidia la mia. Fu senso di giustizia.
Poi venne il liceo. E la maturità.
E fu il momento del primo della classe.
Ancora una volta, a scuola, qualcuno aveva voti migliori dei miei. E Dio sa quanto mi impegnassi. Lo sa anche mia madre. Stavo chiusa in camera, sui libri, per ore ed ore. Ma non bastava mai. I suoi voti erano sempre i migliori. I professori sceglievano di lodare sempre lui. E fu quasi normale, per lui, avere una valutazione più alta della mia alla maturità.
Andava punito.
E la punizione fu raccontare al professore che quel giorno, alla sua macchina, fu proprio lui, il primo della classe, ad infilare uno stuzzicadenti bagnato nella colla nelle serrature.
Se lo meritava. Non fu invidia la mia. Fu senso di giustizia.
Poi venne l’università. Facoltà di lettere moderne.
Passai i primi esami molto più facilmente di quanto mi fossi immaginata. Mi ritrovai a studiare molto di meno ottenendo sempre le valutazioni più alte.
Iniziai a scrivere per il giornale dell’università. Scrivere mi veniva naturale.
Il professore che si occupava della direzione del giornale passò un mio racconto ad una rivista letteraria. Fu pubblicato subito. E così fu per il successivo racconto. E per quello dopo ancora.
Dopo un anno mi fu affidata la direzione del giornale e fui la prima della facoltà cui una piccola casa editrice decise di pubblicare un breve romanzo.
Finalmente ero la prima. Finalmente guardavo gli altri dall’alto. E li trattavo come era giusto che venissero trattati.
E quel giorno, 23 Settembre, fui punita.
E la punizione fu una corda attorno al collo. Da dietro. Un domenica pomeriggio, mentre scrivevo il mio secondo romanzo.
Non seppi nemmeno chi fu a stringerla. Forse uno di loro. Forse tutti loro.
Ma la strinse abbastanza da farmi perdere il fiato. Poi la vista. Ed infine il respiro.
Non me lo meritavo. Non fu senso di giustizia, la loro. Fu invidia.
© Berenice Mason, 2012
Non usare senza il permesso dell’autrice