Exit
Exit - Uscita di Emergenza (nelle parole di Nadiolinda)
Vi prego non ne parliamo più. Ma quando vi chiederanno che cosa significa, rispondete
così: (cantando) domani è il giorno di San Valentino, e al primo chiarore del mattino
verrò e mi mostrerò alla tua finestra per essere la tua fidanzata. Allora lui si alzò e aprì
la porta e poi la fece entrare nella stanza. Ed ella entrò ragazza e uscì donna.
[Ofelia, in Amleto IV, 5]
Exit è l’uscita di emergenza.
L’emergenza è sentimentale.
Il sentimento è ferito.
La ferita sanguina.
E senza sangue, nessuno sopravvive.
Attraverso il medium fotografico, Ofelia rivive iconograficamente di una nuova morte.
Quella di una donna spogliata del suo sentimento, svuotata di senso e destinata dunque a nessun altra prospettiva che non quella dell’inevitabile.
Una meditazione per immagini sul senso della solitudine. Quella causata da un amore ferito, ma anche quella della coscienza di un amore a senso unico, così travolgente e inevitabile da assomigliare al senso più profondo del destino. Ognuno di noi, in cuor suo, conosce la verità: quando si ama, si ama a debito.
Non è possibile richiedere in cambio nulla che ci ripaghi di ciò che mettiamo in gioco quando mettiamo sul tavolo il nostro cuore. Eppure, quando ci si gioca i sentimenti, le monete di scambio sono le parole.
Sincere o meno che siano, sono le uniche garanzie che possiamo avere dall’altro. E di fronte alle parole di un amante, mutevoli come i volti della luna, volatili come il vento che cambia forza e direzione, che crescono e calano senza la regolarità delle maree, non è forse rifugiandosi in un eterno silenzio che un cuore troppo fragile per sopportare il peso dell’amore può trovare rifugio?
Exit non è solo il racconto di un suicidio. È una riflessione sul senso della pace, sulla necessità di una tregua dalle tempeste del cuore, sulla ricerca di una serenità che l’amore (quando è un contratto a perdere con l’incertezza) non riesce a dare.
Exit è una raccolta di fotografie di un incontro. Un incontro in solitudine con il proprio senso dell’amore, quello cristallizzato nel silenzio eterno, nella pace entropica degli elementi, nella facile rinuncia al corpo e nella definitiva immolazione dello spirito al vero senso dell’amore: il senso unico del non ritorno.
Ricorda, i morti non rimangono dove sono sepolti, tornano dove sono stati felici da vivi.
Quindi il tempo non conta e il luogo sì?
Non un luogo qualsiasi, è il luogo dove ci si incontra.
[John Berger, «Qui, dove ci incontriamo»]
così: (cantando) domani è il giorno di San Valentino, e al primo chiarore del mattino
verrò e mi mostrerò alla tua finestra per essere la tua fidanzata. Allora lui si alzò e aprì
la porta e poi la fece entrare nella stanza. Ed ella entrò ragazza e uscì donna.
[Ofelia, in Amleto IV, 5]
Exit è l’uscita di emergenza.
L’emergenza è sentimentale.
Il sentimento è ferito.
La ferita sanguina.
E senza sangue, nessuno sopravvive.
Attraverso il medium fotografico, Ofelia rivive iconograficamente di una nuova morte.
Quella di una donna spogliata del suo sentimento, svuotata di senso e destinata dunque a nessun altra prospettiva che non quella dell’inevitabile.
Una meditazione per immagini sul senso della solitudine. Quella causata da un amore ferito, ma anche quella della coscienza di un amore a senso unico, così travolgente e inevitabile da assomigliare al senso più profondo del destino. Ognuno di noi, in cuor suo, conosce la verità: quando si ama, si ama a debito.
Non è possibile richiedere in cambio nulla che ci ripaghi di ciò che mettiamo in gioco quando mettiamo sul tavolo il nostro cuore. Eppure, quando ci si gioca i sentimenti, le monete di scambio sono le parole.
Sincere o meno che siano, sono le uniche garanzie che possiamo avere dall’altro. E di fronte alle parole di un amante, mutevoli come i volti della luna, volatili come il vento che cambia forza e direzione, che crescono e calano senza la regolarità delle maree, non è forse rifugiandosi in un eterno silenzio che un cuore troppo fragile per sopportare il peso dell’amore può trovare rifugio?
Exit non è solo il racconto di un suicidio. È una riflessione sul senso della pace, sulla necessità di una tregua dalle tempeste del cuore, sulla ricerca di una serenità che l’amore (quando è un contratto a perdere con l’incertezza) non riesce a dare.
Exit è una raccolta di fotografie di un incontro. Un incontro in solitudine con il proprio senso dell’amore, quello cristallizzato nel silenzio eterno, nella pace entropica degli elementi, nella facile rinuncia al corpo e nella definitiva immolazione dello spirito al vero senso dell’amore: il senso unico del non ritorno.
Ricorda, i morti non rimangono dove sono sepolti, tornano dove sono stati felici da vivi.
Quindi il tempo non conta e il luogo sì?
Non un luogo qualsiasi, è il luogo dove ci si incontra.
[John Berger, «Qui, dove ci incontriamo»]
Exit - Uscita di Emergenza (un testo di Antonella Taravella)
l’origine: il senso dell’acqua ha in se una vertigine, ricordo appena il motivo di ogni gesto ed è una pena rivedersi così, fra canneti e sassi
la straniera: suscita in me il disprezzo, ho boccioli di rose che non regalerei ad anima viva, tutto questo trascorrere è una radiografia che si fa problema
una tempesta: si raccoglie dal bordo con un dito e quando mi guardi lo metti in mezzo alle cosce fino al bordo dei seni come se fossi ophelia in questo delirio rosso
la pietra: un tacito appassire che sprigiona lo scorrere tranquillo di ogni verbo, nella mano con questo tuo palmo sovraccarico di ninnoli piovuti dal cielo, mi riporta alla placenta di un caldo marzo di trentacinque anni fa
la straniera: ha una voce raffinata quando parla sottovoce, all’alba mostra le gambe e il pube spoglio, una semina è pronta come un ciclico disimparare dalla bocca
l’origine: non c’è un becco dentro questo mio silenzio, non sento un verso di_vento, ma raccomando l’uso cauto della mia pelle
una tempesta: proprio non ci siamo, ora è tardi, lo steccato è rotto, volontariamente dalla mia stessa memoria così stanca
fili d’erba & rami andati: io sono coerente con il mio dolore, oggi non ho mangiato l’amore come volevi tu, ed ora eccomi qui nell’incantevole mondo, sprigionato dalle mie stesse gambe, un pube che profuma di gigli d’acqua e romanticherie dai frutti più rossi
la straniera: è la solitudine che mi gestisce le corneee, tutti lo sanno che la mia pelle nidifica quando fa buio
la pietra: porta nel vuoto una voce che non trascorre, scende dalla parte lucida un ricamo di alba, lentamente ricordo che ho avviluppato i miei piedi al muschio che la incrosta
l’origine: chiede uno spillo alle dita, il freddo acuto punteruolo che mi ha spinto nella placida disfunzione della luna
la pietra: risulta schiacciata la mia mano sull’angolo buio sotto i canneti, ho una siringa d’odio che sfila nella mia schiena fino a farsi di ghiaccio nei ricordi
la straniera: resto così come una di quelle cose raggomitolate sui bordi della memoria, come il tracciato di un percorso che non dimenticherò presto, la melma dell’odio stramazza sulle spiagge di sassi appuntiti e non ho ricordi di glorificazioni che siano musiche per la mia libertà
fili d’erba&rami andati: tempo fa una signora mi raccontò delle sue lacrime, mi disse per filo e per segno che furono piaghe di paura che la portarono dentro una scatola di latta, a nascondersi dai becchi storti dei merli e dei rapaci che vivevano appostati sui canneti in totale disequilibrio
una tempesta: questo camminarmi come una donna, questo pensiero che s’annoda sfilandosi solo a notte fonda, il vento che non ulula ma statico parla a voce ben chiara una beatitudine mascherata con l’effetto di un verso, che si fa bianco e poi nero, come una bestia innamorata della luna
la pietra: riannodo un capestro di domande sotto l’ombra che faccio alla terra, una massa indistinta di fili conduttori come un rapire la pelle alla carne e dipingere l’attenzione sulle braccia tese all’indietro-nell’ingovernabile fisionomia delle iridi allucinate dal vento
la straniera: si dice che parli ancora al fuoco, alla vita che strilla dentro le gote arrossate dal freddo in questo lambire acqua a partire dalle unghie delle dita alla punta annerita dei capelli di piuma
una tempesta: si frantumano potenti e veloci i desideri che la mia memoria non smette di scrivermi dentro, restano i piedi e quelle cose in sospeso nell’opaca pace che spella la foresta dai piedi del letto di un fiume che dimora come una tomba ad ogni frase morsa dalla lingua
fili d’erba&rami andati: mi ricordi una preda sacrificale dalla voce pallida, come quando la luna nei contro_versi istanti piange la notte da un verso all’altro fino a chiudersi la pelle avariata dall’amore
l’origine: questa straniera veglia è una pietra nello stagno di parole , questo correre lungo gli argini ha uno spazio terso dentro le mani che scavalcano nuvole mentre risuonano le dita dentro le tasche un solo silenzio che sia ovunque
la fine: è questa infondo l’ombra alata della morte, la fine passeggia a braccetto con l’origine di ogni pungolo nella bocca e si ricorderà delle braccia e delle mie vesti, in un grumo rossastro che sa di vergine ammalata d’amore e di giocattoli che muovono gli occhi come giostre, l’incanto termine alla fine delle pietre e tu questo mio nome lo ripeterai ad ogni vento che singhiozzerà sulla nuca
[inedito 2012]©A.Taravella - Su gentile concessione
la straniera: suscita in me il disprezzo, ho boccioli di rose che non regalerei ad anima viva, tutto questo trascorrere è una radiografia che si fa problema
una tempesta: si raccoglie dal bordo con un dito e quando mi guardi lo metti in mezzo alle cosce fino al bordo dei seni come se fossi ophelia in questo delirio rosso
la pietra: un tacito appassire che sprigiona lo scorrere tranquillo di ogni verbo, nella mano con questo tuo palmo sovraccarico di ninnoli piovuti dal cielo, mi riporta alla placenta di un caldo marzo di trentacinque anni fa
la straniera: ha una voce raffinata quando parla sottovoce, all’alba mostra le gambe e il pube spoglio, una semina è pronta come un ciclico disimparare dalla bocca
l’origine: non c’è un becco dentro questo mio silenzio, non sento un verso di_vento, ma raccomando l’uso cauto della mia pelle
una tempesta: proprio non ci siamo, ora è tardi, lo steccato è rotto, volontariamente dalla mia stessa memoria così stanca
fili d’erba & rami andati: io sono coerente con il mio dolore, oggi non ho mangiato l’amore come volevi tu, ed ora eccomi qui nell’incantevole mondo, sprigionato dalle mie stesse gambe, un pube che profuma di gigli d’acqua e romanticherie dai frutti più rossi
la straniera: è la solitudine che mi gestisce le corneee, tutti lo sanno che la mia pelle nidifica quando fa buio
la pietra: porta nel vuoto una voce che non trascorre, scende dalla parte lucida un ricamo di alba, lentamente ricordo che ho avviluppato i miei piedi al muschio che la incrosta
l’origine: chiede uno spillo alle dita, il freddo acuto punteruolo che mi ha spinto nella placida disfunzione della luna
la pietra: risulta schiacciata la mia mano sull’angolo buio sotto i canneti, ho una siringa d’odio che sfila nella mia schiena fino a farsi di ghiaccio nei ricordi
la straniera: resto così come una di quelle cose raggomitolate sui bordi della memoria, come il tracciato di un percorso che non dimenticherò presto, la melma dell’odio stramazza sulle spiagge di sassi appuntiti e non ho ricordi di glorificazioni che siano musiche per la mia libertà
fili d’erba&rami andati: tempo fa una signora mi raccontò delle sue lacrime, mi disse per filo e per segno che furono piaghe di paura che la portarono dentro una scatola di latta, a nascondersi dai becchi storti dei merli e dei rapaci che vivevano appostati sui canneti in totale disequilibrio
una tempesta: questo camminarmi come una donna, questo pensiero che s’annoda sfilandosi solo a notte fonda, il vento che non ulula ma statico parla a voce ben chiara una beatitudine mascherata con l’effetto di un verso, che si fa bianco e poi nero, come una bestia innamorata della luna
la pietra: riannodo un capestro di domande sotto l’ombra che faccio alla terra, una massa indistinta di fili conduttori come un rapire la pelle alla carne e dipingere l’attenzione sulle braccia tese all’indietro-nell’ingovernabile fisionomia delle iridi allucinate dal vento
la straniera: si dice che parli ancora al fuoco, alla vita che strilla dentro le gote arrossate dal freddo in questo lambire acqua a partire dalle unghie delle dita alla punta annerita dei capelli di piuma
una tempesta: si frantumano potenti e veloci i desideri che la mia memoria non smette di scrivermi dentro, restano i piedi e quelle cose in sospeso nell’opaca pace che spella la foresta dai piedi del letto di un fiume che dimora come una tomba ad ogni frase morsa dalla lingua
fili d’erba&rami andati: mi ricordi una preda sacrificale dalla voce pallida, come quando la luna nei contro_versi istanti piange la notte da un verso all’altro fino a chiudersi la pelle avariata dall’amore
l’origine: questa straniera veglia è una pietra nello stagno di parole , questo correre lungo gli argini ha uno spazio terso dentro le mani che scavalcano nuvole mentre risuonano le dita dentro le tasche un solo silenzio che sia ovunque
la fine: è questa infondo l’ombra alata della morte, la fine passeggia a braccetto con l’origine di ogni pungolo nella bocca e si ricorderà delle braccia e delle mie vesti, in un grumo rossastro che sa di vergine ammalata d’amore e di giocattoli che muovono gli occhi come giostre, l’incanto termine alla fine delle pietre e tu questo mio nome lo ripeterai ad ogni vento che singhiozzerà sulla nuca
[inedito 2012]©A.Taravella - Su gentile concessione